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sabato 29 ottobre 2016

Articolo "Il Grande Fratello nelle scuole" di Paolo Coceancig

Nuove professioni in tempi di crisi: gli operat(t)ori
Di Paolo Coceancig – Coalizione Civica Bologna
E’ stata appena approvata alla camera la legge unificata n.261 che si pone come obiettivo la sicurezza negli asili e negli istituti per anziani e disabili. La necessità di una regolamentazione della materia è nata, a detta del legislatore, dal recente aumento di casi di maltrattamenti all’interno delle strutture prese in considerazione. Il provvedimento, infatti, tra le altre cose prevede“l’introduzione di un sistema di videosorveglianza con telecamere a circuito interno per garantire la sicurezza in alcune strutture pubbliche e private, quali gli asili nido, le scuole dell’infanzia o le strutture socio-assistenziali, che ospitano categorie di soggetti particolarmente vulnerabili”. Facile prevedere che al consenso bipartisan del parlamento (unica forza contraria SI, astenuti i Cinque Stelle) farà seguito l’entusiasmo quasi unanime del paese. D’altra parte, come spesso succede in questi casi, una volta avviato l’iter parlamentare, i nostri solitamente remissivi mass media (con la TV di stato in testa) si accorgono all’improvviso dell’esistenza di abusi e prevaricazioni all’interno di asili e case di cura e cominciano a denunciarli con frequenza quotidiana, preparando così il terreno al plauso generale del paese per l’approvazione del provvedimento. Lo dico subito e lo dico da operatore: questa misura a me inquieta. Sia ben chiaro: non si tratta certo di minimizzare la portata di questi vergognosi episodi (peraltro numericamente limitati se rapportati al numero complessivo di strutture di questo tipo sul territorio nazionale), né di evitare di prendere tutte le misure necessarie affinché queste persone siano punite e non lavorino mai più in ambienti relazionali così delicati, ma siamo sicuri che la strada giusta da percorrere sia quella della spia elettronica permanente? Tagli del personale, rapporti numerici palesemente insufficienti per rispondere alla complessità della nuova popolazione scolastica, strumenti di lavoro vecchi in edifici spesso non a norma, retribuzione del personale (soprattutto nei casi di strutture a gestione privata) al limite della soglia di sussistenza, il tutto testimoniato da un aumento sintomatico dei casi di burn out e da un deterioramento diffuso delle pratiche relazionali proprio nei luoghi di lavoro dove si dovrebbe promuovere socialità. Nessuna di queste cause di malessere sarà intaccata dal nuovo provvedimento: difficoltà organizzative e disagio personale rimarranno e pure gli abusi; i peggiori, quelli di tipo psicologico, non li può cogliere neppure la telecamera più sofisticata. E poi ci sarà sempre qualche metro quadro al riparo dell’occhio elettronico, a meno che non si voglia violare laprivacy dei lavoratori anche quando vanno in bagno. Non ci bastano a compensazione le migliorie che sono state apportate alla bozza iniziale, laddove si parla di una maggior attenzione alla formazione per gli operatori e ai requisiti d’ingresso e neppure le limitazioni all’uso che sono state introdotte: l’installazione di telecamere può avvenire solo previo accordo sindacale e la visione delle riprese è esclusivamente riservata alla magistratura e alla polizia giudiziaria. La questione, infatti, non è chi guarderà i filmati, bensì chi inquadrerà la telecamera. Qualsiasi relazione umana, e a maggior ragione quelle più delicate, viene falsata se chi deve avviarla opera con la consapevolezza di avere una telecamera puntata addosso. Una relazione di cura ha bisogno di un contesto originario di autenticità particolare affinché possa poi trasformarsi in un intervento educativo efficace. Se viene meno il vincolo fiduciario tra chi “consegna” il proprio caro e chi lo accoglie per prendersene cura viene meno la premessa necessaria affinché quell’intervento possa avere la sua naturale evoluzione. Creatività, intimità, complicità: l’ABC delle nostre professioni spazzato via al primo “ciak si gira”. Sta succedendo qualcosa di simile un po’ dovunque, pensiamo al mondo della salute mentale: lo spazio eroso all’approccio riabilitativo meno ospedaliero viene compensato da un ricorso sempre più massiccio alla contenzione farmacologica, con il conseguente potenziamento delle sbarre di quel manicomio chimico denunciato dagli psichiatri più “riluttanti” come Pietro Cipriano. Scorciatoie facili e a portata di mano al posto di percorsi di elaborazione e di riflessione, pillole al posto di progetti d’inclusione, telecamere al posto di spazi di socializzazione, “protocollismo” al posto di umanesimo, repressione al posto di prevenzione, il tutto a un costo enorme per la società: economico e culturale. L’indifferenza generale per ogni forma di ricerca, con la conseguente fuga all’estero dei nostri “cervelli” migliori, è la conferma concreta del disinteresse che le nostre istituzioni nutrono verso tutto ciò che è “pensiero”, sviluppo di idee nuove. E’ la resa incondizionata dell’umano ai suoi limiti, con l’aggravante dell’ambizione illusoria che la delega alle macchine e al decisionismo spicciolo possano in qualche modo protrarre la nostra quota di benessere all’infinito. L’evoluzione sociale non serve al popolo se non è preceduta da un’evoluzione di pensiero” cantava più di trent’anni fa Franco Battiato. Il plauso gaudente all’approvazione della legge di alcuni gruppi di genitori coalizzati sui social network che all’inizio del percorso della legge chiedevano addirittura delle webcam collegate direttamente con i loro telefonini grazie ad un’apposita app, ce la dice lunga sull’orlo di quale baratro siamo arrivati.
“Colui che apre la porta di una scuola, chiude una prigione” scriveva nell’ottocento Victor Hugo. Il rischio reale è che avanti di questo passo snatureremo le nostre scuole a tal punto da renderle simili a delle prigioni, il tutto senza essercene neppure accorti.
(Articolo ripreso dal sito http://www.leila.network/)

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